Eugenio Donadoni (1949)

Eugenio Donadoni nel venticinquesimo anniversario della morte, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. II, vol. XVIII, Pisa, 1949, pp. 1-13; poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit., e in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia cit.

EUGENIO DONADONI

Meglio di me, altri che furono di Eugenio Donadoni amici, colleghi o scolari, potrebbero parlare di lui, rilevando, nella loro memoria affettuosa, quell’accordo fra l’opera del critico e l’espressione quotidiana della sua personalità malinconica e appassionata, solitaria e stimolante, che costituiva, nel comune ricordo di quanto lo conobbero, il segreto del suo fascino senza prepotenza.

Ma l’omaggio che io rendo alla sua memoria ha una precisa e calcolata intenzione: è l’omaggio di una nuova generazione di studiosi che non ebbe il suo insegnamento diretto e che, nella distanza degli anni e delle esperienze, può manifestarsi nei suoi confronti con una ricostruzione distaccata, «storica», a cui l’elemento di simpatia indispensabile alla sua comprensione viene nuovamente aggiunto senza l’inevitabile velo della nostalgia autobiografica. E questo omaggio critico reso alla sua importanza storica, alle sue qualità piú pure e resistenti e soprattutto al fuoco di serietà che tutte le anima e le salva sicuramente dalla rovina del tempo, mira a quella identificazione concreta della personalità che è poi l’unico omaggio davvero adatto ad un uomo che nella vita sdegnò apertamente i fumi variopinti della vanità e dette preziosa lezione di spregiudicata fermezza mettendo al posto dell’eloquenza la sua radicata persuasione. Se una lettura strumentale dei suoi lavori isolati può facilmente indurre alle limitazioni piú convenzionali, è la ricognizione intera del mondo del Donadoni, nella ricchezza di intelligenza e di interessi e nella persistenza unitaria di alcuni motivi quasi esasperati, che permette di rendersi conto della forte luminosità centrale e delle ragioni vitali dei suoi atteggiamenti critici, nella continua urgenza di pienezza spirituale che altrove potrebbe essere gusto di eloquenza, aggiunta artificiosa ad una mancanza originaria di sostanza umana, o semplice ripetizione di un canone scolastico di origine romantica.

Egli fu maestro di vite interiori, ben consapevole dei legami e delle differenze fra cronaca biografica e storia interiore che la poesia solamente conosce. Ebbene, alla sua vita interiore noi possiamo chiedere i primi segni della sua vocazione di critico, l’indicazione della nascita necessaria dei motivi, dei poli essenziali della sua attività critica, come egli fece con tanta esemplare finezza in un saggio su Croce e Pascoli riconducendo la nascita di un giudizio anzitutto al mondo intimo del critico, all’angolo invalicabile della sua visione vitale, alla qualità e quantità della sua esperienza. Cosí in lui la vita sofferta, il senso duro delle cose nella loro inesorabile ostilità, il profondo sentimento della morte che dan luogo ai motivi critici dell’elegia e dell’impegno, al doppio polo dei valori umani della poesia e della sua serenità liberatrice, li assicurano insieme da ogni influenza di moda, da ogni soluzione di semplice intelligenza. Cosí, mentre le parole «anima», «spirito», «umanità», richiamano giustamente il clima dell’ambiente Leonardo-Voce e la sua esigenza religiosa cristiana richiama il modernismo piú buonaiutiano, ogni pericolo per quelle parole di divenire «maiuscole» generiche, vuote, e per il suo impeto generoso di confondersi con i turgori impuri, con l’erezione fastidiosa dell’io di cui in quell’epoca dava spettacolo non pudico qualche professionista dell’anima e delle sedicenti culture dell’anima, è annullato inizialmente dall’energica garanzia di una vita di intensità dolorosa, di impegni scabri ed essenziali, di risoluto rifiuto di demagogia tanto forte quanto il bisogno di educazione e di servizio.

Anche la cronaca delle sue vicende ci aiuta a confermare la sua storia umana, appoggio essenziale alla validità della sua critica: nato il 16 novembre 1870 ad Adrara S. Martino nel bergamasco, da famiglia di professionisti non agiati, fece i suoi studi ginnasiali a Torino presso i salesiani: anni che rimasero legati nei suoi ricordi ad amarezze precoci, come amare esperienze furono quelle di un modesto impiego milanese, di una preparazione quasi casuale alla licenza liceale che stava per essergli negata sembrando il suo tema d’italiano troppo superiore alle possibilità di un autodidatta. Anche la borsa di studio, goduta a Roma per due anni, gli fu poi tolta dal mecenate sdegnato con suo padre per il rifiuto di fare propaganda elettorale per lui. Dové riacquistare la possibilità di studiare lavorando come insegnante a Pontecorvo, poi in Sicilia, dove si iscrisse all’Università di Palermo e si laureò con una tesi sul Trissino che – a quanto pare, non letta dal frettoloso docente – ebbe una bassa votazione con conseguenze nocive alle possibilità di sistemazione scolastica. Esperienza lunghissima di difficoltà sue ed altrui che dette il frutto di una sensibilità concreta per i problemi sociali, di uno sdegno misurato ma sicuro contro il sopruso e la violenza effettiva di ogni ordine ingiusto, e che forní al suo animo generoso il senso di un incontro di disillusione e di responsabilità in cui attività, lotta, sogno escono trasformati e fatti adulti: alla stessa maniera che la sua salute, piuttosto cagionevole e progressivamente sfibrata dall’eccesso delle fatiche e dal lavoro mentale, fu certo lo sfondo sensibile di un sentimento del tempo e delle vicende piú intime, attento e discreto, leggermente avido e paziente che l’opacità della buona salute troppe volte attutisce con la buona fortuna e l’agio economico che arrotondano le punte piú ardite dell’animo, smorzano la capacità di avvertire le sofferenze degli altri.

La vita di insegnante portò il Donadoni a Lucca, a Ventimiglia – dove un discorso su Gesú gli procurò sdegno e incomprensioni per la sua tesi, anche «martinettiana», della eredità del cristianesimo primitivo nelle sette eretiche e nei ribelli alle istituzioni e ai loro compromessi mondani —, poi di nuovo in Sicilia, a Patti, a Palermo, dove nel 1905 ottenne una cattedra stabile al liceo iniziando una piú intensa vita di studi, di amicizie, di relazioni umane, di impegni di uomo e di insegnante appassionato alla scuola e al fine formativo di questa: impegni testimoniati fra l’altro da un discorso del 1907 per la riforma delle scuole medie[1], in cui, se la soluzione prospettata era piuttosto astratta – e ad essa reagí il Salvemini che pure ne vide l’iniziale giustezza –, è da rilevare l’energica coscienza del legame fra scuola e situazione sociale che nello spiritualismo donadoniano dava al culto dei valori nobili e superiori l’appoggio di una esperienza disillusa della dura, rugosa realtà e nella sua ribellione antipositivistica portava una robustezza concretamente morale, ben lontana dal rugiadoso umanitarismo eclettico che caratterizza certi aspetti di quel primo Novecento.

Passato a Napoli, al Liceo e all’Istituto Superiore femminile di Suor Orsola, ebbe l’amicizia del Gentile e del Croce che influirono sulla direzione sempre piú idealistica e concreta del suo spiritualismo pur nella sua particolare indipendenza. Mentre a Milano, dove rimase fra il ’13 e il ’15, entrò in amicizia con Foscolo Benedetto e Mondolfo, occupandosi intensamente, in quell’ambiente attivo e attivamente democratico, dell’Università popolare per la quale, senza la boria accademica, del tutto assente dai suoi scritti e dalla sua vita, fece conferenze e scrisse saggi di storia letteraria. Si era intanto sposato e nella compagna intelligente e generosa – la cara compagna e la madre di Miriam e Sergio – e nella vita familiare aveva trovato una risposta al suo bisogno di affetti interi, di pura fedeltà alla vita.

Dal ’16 al ’22 fu nuovamente in Sicilia, a Messina, come incaricato di letteratura italiana all’Università. In quell’anno, superate le incomprensioni dei seguaci del metodo storico da lui cosí severamente giudicato, fu vincitore di un concorso universitario e fu chiamato a Pisa. Breve periodo purtroppo, poiché la malattia si pronunciò inesorabile e l’ansia di lavoro, l’impegno sull’autore piú caro – il Leopardi –, l’animazione messa nella critica militante, furono annullati dalla morte, a cui tanto egli aveva pensato colorando dei suoi riflessi tristi e sereni gran parte della sua opera piena di entusiasmo per la vita e di pensosa coscienza della sua suggestiva ed amara labilità.

Ché lungi dalle case dei morti inamene si stanno

i vivi, né il pensiero sopportano pur della morte.

Improvvidi! Ché molti sarebber travagli assopiti,

nel rammentar che fugge l’efimera vita, né giova

di cupidigie e d’odi non mai sopiti la sorte

aggravar di chi nacque a piangere ed a morire.

Cosí scriveva nei suoi Superstiti legando alla presenza della morte, alla poesia custode di memorie, il sentimento di compassione e di fratellanza a cui la sua età piú matura aveva assicurato, come ad ogni sua espressione, un carattere sempre piú sobrio ed austero. Quell’aria di austerità senza cipiglio, di melanconia appassionata in cui gli scolari pisani di quel breve periodo composero un ritratto indimenticabile di un maestro la cui nobile e virile umanità maturata tutta dall’interno aveva disciolto ogni minima traccia di frivolezza, aveva realizzato davvero per loro la foscoliana «santità dell’ufficio letterario».

Come la religiosità e l’umanità del Donadoni consuonano in una loro speciale misura con il migliore spiritualismo (ed idealismo) del primo ventennio del secolo, non per adesione a mode, ma per intima necessità, cosí la sua esigenza di espressione artistica non dipende dal mito postcarducciano del professore-poeta, e da una volontà di esercizio del critico per rendersi conto dell’attività che è oggetto del suo esame, ma da uno spontaneo risentimento personale primo momento di quella tensione alla espressione di sé e del proprio mondo interiore che continua poi nella critica con forza originale e con maggior complessità. Se ogni critico ha inevitabilmente una sua poetica ed un nucleo fantastico che si svolge in linee di gusto e di giudizio, queste nel Donadoni trovano inizialmente una via di uscita meno matura (la sua vocazione è infatti senz’altro di critico), ma ugualmente personale ed in coerenza con i motivi, i problemi e la essenziale intuizione della vita che costituiscono il suo ricco e scavato paesaggio sentimentale. Dopo uno sfogo piú romantico nel Caino (sotto il segno di Byron e Hugo che tante volte ricorrono a coppia nei suoi scritti critici ad indicare la poesia romantica senz’altro), lo scrittore si volse in anni piú maturi a quel tipo di poemetto in versi che assommava per lui ricordi romantici e, nell’esametro, preoccupazioni neoclassiche per una musica trattenuta e pensosa, capace di narrare e di commentare in tono di elegia. Fra ultimo romanticismo ed espressionismo, un’esperienza di idillio elegiaco (condizione di poesia su cui piú volte il Donadoni ha insistito anche nel suo libro teorico L’anima e la parola, 1915) si costruisce in immagini mosse da una sensibilità poco colorita, in intime cadenze dolenti che fan pensare anche ad un Thovez piú delicato e guardingo. Tenui accordi in un racconto trasognato di esperienze in cui gli echi letterari pascoliani, del Carducci di Nevicata, e d’altronde, a volte, del Goethe dell’Hermann und Dorothea, sono sottili strati culturali attraverso cui filtra il succo di una personale esperienza poetica incapace di superare un primo stadio espressivo, ma risolutamente sofferta, e valida nella spirale di uno sviluppo estremamente unitario. Nei Superstiti (1909) e in Romilde (1912) il motivo donadoniano dell’elegia e dell’idillio a cui la delusione della vita rimanda ha trovato l’espressione piú tenue e musicale, mentre nella critica si svolgerà piú forte il motivo parallelo dell’impegno e della serenità poetica purificatrice.

Muoiono tutte ad una ad una le cose leggiadre

nella vita, o Romilde, né vedono il fiore degli anni,

sí come tenui segni dell’alba, che solvonsi prima

del giorno, ma nei buoni permane amaro un desio

vano, come il rimpianto d’un tempo che piú non ritorna.

Gemono solitari i buoni sperduti nell’ampio

deserto, come geme assiduo nel fondo d’ignota

valle un rivolo e chiama; ma rade vi scendon le erranti

capre; ma rado augelli vi cantan lor primavera

desolata; e se avventi sue fiamme l’Agosto dai cieli,

il trepido ruscello in lenta agonia si consuma

e restano nel letto di lui lacrime sole...

L’eccesso sentimentale, da cui pure è sollecitata ed esaltata la musica e la sobria immaginosità di questi versi, fu ritagliato con piú energia nell’ultimo tentativo direttamente artistico, Il sudario (1914), libro di narrazione a diario, in cui cadute sconcertanti ed insistenze mal calcolate non tolgono la tenace impressione di una tensione spirituale e narrativa autentica che, nel bisogno autobiografico e di costruzione in crisi, suggerisce la contemporaneità di certo mondo vociano: soprattutto dei vociani piú seri e tormentati, Boine, Slataper, Jahier, per il Ragazzo del quale il Donadoni parlò di «piccolo grande libro». Romanzo di un’anima (il sottotitolo è «pagine di passione e di dubbio») come romanzi di anime sono i capolavori vociani, Ragazzo, Un uomo finito, Il mio Carso, Il peccato, espressione di una crisi fra vita libera e piena e la ricerca, la nostalgia di una fede antica e sicura, quasi dramma del modernismo, ma, piú in profondo, simbolo di una ricerca di una nuova costruzione, di una nuova persuasione fuori della istituzione chiusa e mortificante e di una libertà arida ed insapore. E quel nucleo religioso cerca l’espressione in un’anima, in un personaggio attraverso una forma diretta e scabra in cui sensuosità e immaginosità vogliono la forza e la nudità di un linguaggio intenso e senza colore. Come in un dramma precedente, rimasto inedito, La bocca di Satana (1905), una specie di Brand cattolico (Ibsen e poi Hebbel furono autori donadoniani), su di uno sfondo di paesaggio gigantesco di montagne e in una cupa atmosfera quasi maniaca (non mancano pericoli di grottesco e di eccesso ragionativo), esprime l’urgenza etico-estetica del Donadoni di un’arte tesa da energia umana, carica di vita religiosa in crisi e quindi facilmente invocante espressione di concreti personaggi.

Gli accenni alla produzione poetica non valgono dunque solo a delineare un aspetto dell’attività del Donadoni quanto a confermare la nascita complessa, non scolastica, e non di semplice intelligenza, della sua critica. Certo per ogni critico – anche il piú umile ed aderente – un libro è una affermazione del proprio mondo, un’espressione di sé (tale fu il Manzoni per Momigliano, tali il Verga per Russo o Mallarmé per Thibaudet), ma per il Donadoni tale nascita è anche piú evidente e peculiare e il legame fra poesia, esigenza spirituale e critica, in una richiesta di pienezza umana e di interpretazione centrale, si ritrova chiara anche in due scritti dal titolo molto esplicito: L’anima e la parola e Valori umani della Poesia. Nel primo – un vero e proprio trattato sul problema dello stile – le istanze crociane vengono riprese e utilizzate, senza precisi riferimenti, in un piú largo tentativo di applicare il suo intenso spiritualismo e di ricostruire – abolita la vecchia retorica e la precettistica – una vita differenziata dello stile nel suo rampollare dall’anima secondo essenziali e permanenti stati d’animo. La nuova giustificazione dei vecchi generi e delle vecchie figure, morte nella loro cristallizzazione, significava il tentativo di uscire da posizioni generiche e far rivivere la letteratura (come diversamente farà il Croce nella Poesia) attraverso la riduzione di forme letterarie ad atteggiamenti spirituali. Poiché, come egli dice nella sua forma decisa e perentoria, «l’anima è ciò che piú interessa le anime e lo stile è perciò la virtú che piú seduce in uno scrittore... e... quale che sia l’anima che ci si rivela, noi sentiamo di amarla», la poesia diviene per lui la forma piú alta e pura dell’anima e per fare, per intendere la poesia è per lui necessaria una condizione di «raccoglimento e di meditazione», ma insieme di esperienza e di applicazione vitale.

L’esigenza della totalità nell’atto estetico e critico è fondamentale nel Donadoni e assume forme di insistenza quasi eccessiva nella implicita polemica con la vecchia scuola erudita, con le degenerazioni del biografismo patologico e veristico, inquadrandosi piú nel ricordo desanctisiano rivissuto non scolasticamente che nel pensiero crociano, di cui il Donadoni sembra quasi ignorare le soluzioni del Breviario o del Carattere di totalità dell’espressione artistica, che avrebbero potuto rafforzare certe sue posizioni liberandole insieme da un pericolo di indistinta spiritualità e di confusione con lo psicologismo. Ma nello stesso tempo l’indipendenza del Donadoni implica una accentuazione tutta particolare, intenzionale dalla verità dell’anima come elemento distintivo dalle poetiche sensualistiche dei dannunziani e dalla possibile confluenza di queste con il presunto frammentismo della prima estetica crociana. E nella prolusione milanese del 1914, mentre pur ribadiva l’autonomia dell’arte, i legami con la vita venivano ricercati (e le citazioni sono Poliziano, Foscolo e Goethe) con un singolare appello ai lettori piuttosto che agli esteti ed ai critici. Autonomia ed eteronomia lottavano in lui come posizioni teoriche, ma in realtà cosí profonda e vissuta era la sua richiesta di valori umani nella poesia e cosí vigorosa, almeno inizialmente, la sua distinzione istintiva della poesia dalla retorica e dall’eloquenza, che tutto si traduceva nel desiderio quasi incontentabile di una poesia che nasca dagli strati piú profondi, piú genuini, piú assoluti, donde il mito poetico sorga naturalmente denso di eticità, sia, secondo la sua terminologia, parola d’anima. Posizione che poteva indurlo a dichiarare (poiché Donadoni è un critico che non ha timore di compromettersi, che vuole anzi compromettersi ed impegnarsi) una specie di svalutazione dell’Ariosto non sentito nella sua speciale ricchezza, nella sua vera vita interiore e quindi collocato in un’ambigua grandezza disumana. Caso limite che egli non approfondí preferendo restare nel cerchio dei suoi autori, dove il suo canone di interpretazione corrispondeva alla sua simpatia.

Foscolo è uno di questi e basta leggere la prefazione del libro che il Donadoni gli dedicò nel 1910[2] per capire – là dove egli parla di ricchezza, di complessità e di santità e serietà del letterato e poeta Foscolo – che in quello studio il critico, piú che ad una ricerca accademica, adibiva il vastissimo materiale ad una applicazione decisiva del suo canone di interpretazione totale e centrale, di interpretazione della poesia nel saldo cerchio di una personalità. Tutto viene riportato con forza nell’interno della vita spirituale foscoliana e, mentre le correnti filosofiche (sensismo e vichianesimo) si trasformavano in motivi drammatici dell’animo foscoliano quasi avulse dalla complessità della loro importanza culturale e storica, lo sviluppo interno del pensiero e delle posizioni foscoliane è rappreso in unità, colto in un momento centrale, anche se una specie di lente d’ingrandimento rileva minutamente i singoli elementi sino all’eccesso della descrizione interminabile dei giudizi del Foscolo critico. Il bisogno di completezza, di esplorazione minuta e l’esigenza di cogliere un’anima nella sua unità, nel suo nucleo spirituale, si incontrano nella volontà di ricostruzione totale, di critica individualizzante che accomuna il Donadoni a tendenze dello storicismo mantenendolo però nella sua caratteristica biografia interiore, di accertamento di qualità e quantità di sostanza umana. E l’avvicinamento al centro spirituale è operato non certo trascurando la storia che permette l’impressione dell’essenziale crisi sensismo-vichianesimo-hobbesismo, ma riducendola il piú possibile a dramma spirituale piú che nella direzione di cultura letteraria in cui critici del nostro tempo cercherebbero di sentire la storia del letterato e del poeta.

L’urgenza di interpretazione dell’anima foscoliana (mentre la volontà di minuta adesione procurava una certa pesantezza descrittiva) finiva per velare l’esame della poesia nel suo valore di realizzazione, ma si trattava anche in quel caso di un pericolo, di una violenza salutare da cui, nella migliore tradizione desanctisiana, la figura foscoliana usciva rinnovata, colta nella sua ricchezza di problemi, salvata dal biografismo esterno della critica erudita e dalle formule piú generiche ottocentesche. E naturalmente erano alcuni aspetti del Foscolo che venivano piú illuminati (diremo Ortis e il suo sviluppo a scapito di Didimo): ché il Donadoni appartiene piuttosto ai critici parziali ed intensi che preferiscono comunque la discutibilità al compromesso, intuizioni vive ed eccessive a immagini sbiadite, e sapientemente lucidate.

E quanti sicuri acquisti in questa ricostruzione robusta e magnanima del mondo interiore del Foscolo: l’esame dei Sepolcri era rinnovato dalla precisazione dell’urto fra sensismo e romanticismo appoggiato al Vico, il mondo di armonia della poesia foscoliana acquistava un carattere di vittoria e di maggiore complessità dall’accentuazione sia pure eccessiva della dura visione hobbesiana della vita sociale, e i legami fra l’Ortis e i Sepolcri venivano individuati per la prima volta – come vide il Russo[3] – in una precisa affermazione di questo libro.

Ma la prova piú fresca e felice della sua espressione critica è rappresentata dal libro sul Fogazzaro (1913)[4], in cui il bisogno di avvicinamento totale è piú facilmente realizzato, la contemporaneità è attinta piú naturalmente, la storia vissuta personalmente dal critico non ha bisogno di sussidi speciali, e tutte le qualità migliori del Donadoni critico e scrittore si svolgono armonicamente: il contatto con l’autore è sulla doppia direzione di simpatia e di giudizio ugualmente intenso e naturale, una rapidità e fusione di linguaggio che fanno di questo uno dei libri piú francamente belli della nostra letteratura critica, servono a delineare un ritratto del Fogazzaro insostituibile e insuperabile nei suoi segni essenziali. Attratto nel Fogazzaro dalla sua qualità di scrittore di crisi, di problemi religiosi, la sua salda concezione della poesia e della vera vita spirituale lo portò a reagire al romanzo fogazzariano piú che se egli vi fosse giunto da una lettura impressionistica o dal desiderio di semplice sistemazione storica. Sí che non cadde negli inganni della suggestione sentimentale a cui abbiamo visto cedere raffinatissimi interpreti, mentre seppe ben distinguere proprio dall’interno dello spirito fogazzariano il limitato valore positivo di Piccolo mondo antico nella sua sincerità e poeticità. Il Donadoni infatti partiva da una vissuta distinzione di «sentimento» e di «profonda coscienza» e su di quella costruiva in tal caso la sua interpretazione critica, e come distingueva il dio fogazzariano «costruito dal sentimento assai piú che scaturito dalla profondità della coscienza», cosí alle cadute sentimentali di un’arte fiacca e di una fiacca spiritualità opponeva la sua esigenza di una poesia sorta come elaborazione fantastica di motivi della piú profonda vita della coscienza.

Dal centro dell’anima fogazzariana il critico svolge – in una forma di descrizione che si rivela giudizio – la sua severa definizione dei romanzi nella debolezza di costruzione, nello scarso soffio ispirativo, e i personaggi ,acutamente studiati, diventano, nella loro fragilità e falsità, il segno estetico di una incapacità di espressione, di una incertezza di «pensiero e azione» poetici. Inibendosi la degustazione di particolari o di aloni suggestivi (il Donadoni è critico severo con se stesso e con ogni forma di possibile estetismo e impressionismo mentre è capace di sensibilissime traduzioni critiche di atmosfere e paesaggi poetici), riducendosi volontariamente a rivedere il Fogazzaro tutto nel suo centro animatore (tanto che in tutto il libro non si trova una sola citazione testuale dai romanzi), egli riesce poi a ricostruire la personalità del Fogazzaro fino ai suoi procedimenti tecnici di romanziere, fino ai brevi – ma precisi – accenni sullo stile: «Lo scrivere del Fogazzaro manca di quelle uniformità, che non significa già monotonia, ma concordanza del pensatore con se stesso, e unità del suo mondo interiore, e individualità e stile. Il Fogazzaro non sa riscaldare, ravvivare, amare tutto ciò che è materia della sua rappresentazione; specialmente negli ultimi romanzi, si sente che molti capitoli sono tirati giú: sono materia bruta rimasta del tutto esteriore all’anima del Fogazzaro; mentre il poeta vero – e piú largamente, lo scrittore – pervade col suo io prepotente la materia anche piú ribelle, la doma, la assimila...»[5].

Ma piú ancora che da queste posizioni decise sullo scrittore sempre legate alla verifica della presenza o meno dell’anima creatrice, singolare padronanza di stile e di temi critici, lucidità di sguardo severa e serena, estrema felicità di rilievi positivi e negativi di sottolineature sensibili che fanno pensare alla grazia nativa di Serra, si incentrano originalmente in una diagnosi spirituale che in tanto ha efficacia e funzione di critica estetica in quanto non è formula di scuola, ma è profondo interesse del critico per la vita spirituale e religiosa. Sí che, riuscendo ad un completo giudizio estetico sul Fogazzaro, il centro irradiante del libro può ritrovarsi in una frase sul cristianesimo come questa che cito: «Il cristianesimo fogazzariano vuol essere – come si sa – un cristianesimo decente e presentabile agli uomini di ingegno e alle signore eleganti. La profondità del beati pauperes spiritu, la profondità di quel detto di Paolo, che Dio sceglie le cose vili per abbattere le grandi, il Fogazzaro non l’ha intesa mai; né ha mai pensato che il cristianesimo ha invertito i valori usuali della vita»[6].

In questo libro veramente bello, in cui una critica piena e conclusiva fluisce con una straordinaria agevolezza e si precisa insieme al volto del Fogazzaro quello austero e comprensivo del critico, la concezione donadoniana si avvantaggia certo di condizioni di ispirazione e di speciale possibilità di contatto e contemporaneità fino alla dichiarazione tutta personale sul carattere autobiografico della critica. «Dirò che il tenermi presenti i giudizi altrui non avrebbe fatto che paralizzare e conturbare il giudizio mio, qualunque esso sia, e comunque esso valga. Avrebbe tolto cioè, a questo libro quel poco che ci può essere di sincero, di vivo, di immediato, di mio insomma, e si sa che appunto per esprimere il primo io si scrivono i libri; anche, e soprattutto, i libri di critica». Non caldeggerei certo un simile modo di dissolvere la storia dei problemi critici ed a nessuno sfuggirà quel che di eccezionale può celarsi in simili attacchi di impeto; ma nello sviluppo della critica del Donadoni questo è l’inevitabile rovescio di quella forza di penetrazione centrale (da «centro a centro» si può dire per lui), di contatto e di omogeneità con l’autore e costituisce insieme la sua conquista e il suo limite storico.

La tendenza alla critica dei personaggi e alla scoperta di mondi interiori (e si tenga conto a questo proposito della bella traduzione dei Colloqui di Goethe con Eckermann[7], come d’altra parte di quella dei Nibelunghi di Hebbel[8] che rivelano anche un’attenzione alla letteratura tedesca, indice dei suoi larghi interessi), dopo una prova di grande finezza psicologica nel saggio del ’13 sui Personaggi d’autorità dei «Promessi Sposi» (personaggi sentiti come voce di un’eterna bassezza morale, ma anche come particolare prodotto della interpretazione manzoniana del ’600), si inquadrò in un maggiore senso di storia nel massiccio volume sul Tasso[9]. Una maggiore storicizzazione del Tasso e della sua poesia nella letteratura del secondo ’500 risentita nelle polemiche intorno alla Liberata e nella nascita critica della Conquistata, un piú saldo e complesso impianto critico che rivela l’aumentata coscienza della fungibilità degli strumenti non adoperati nei precedenti lavori, ma ancora – nell’offerta propizia della morfologia sentimentale del Tasso – il metodo dell’interpretazione del mondo interiore si rivela subito nel primo capitolo sulla personalità morale del Tasso: «Il presente libro è un’analisi dell’opera di T. Tasso negli elementi spirituali che la determinarono: e conduce alla storia interiore di lui o la presuppone...», con la precisazione da non dimenticare: «La personalità morale del Tasso è nella sua stessa opera di poeta e di scrittore»[10]. Precisazione che limita i pericoli di una semplice reversibilità uomo poeta ed implica la coscienza della ascesa da verità a poesia nel legame fra mondo interiore e mondo poeticamente espresso.

Il Tasso era per il Donadoni una delle punte estreme della sua comprensione: l’esemplare del «poeta puro» preso fra sincerità e retorica, fra poetica del grandioso e fondo idillico-elegiaco, fra storia e rifugio poetico. E d’altra parte la natura lirica del Tasso e la sua crisi di velleità e di sogno permetteva un uso piú genuino e piú sicuro della interpretazione dei personaggi come motivi lirici dell’anima tassesca. Sí che in quest’opera, mentre assistiamo ad un allargarsi dell’apparato (non per mascheramento e per concessione esteriore, ma per esigenza di maturità dopo lo sfogo fresco del libro sul Fogazzaro), ben superiore ai mezzi critici stanziati per il primo lavoro sul Foscolo, piú facile era l’irraggiarsi della ricerca centrale fino a considerazioni piú schiettamente stilistiche, appoggiate a citazioni di versi non solo come documento di atteggiamenti psicologici e di forme dei personaggi, ma come testi precisi di una lettura di vita interiore già fattasi poesia e risolta in ritmi, in visioni, in musica. E mentre l’esame del Donadoni, cosí minuto e complesso, poneva alcuni temi essenziali per il problema critico tassesco (la amoralità e l’edonismo, il dolente distacco e la mondanità), osservazioni sensibili e pungenti sul linguaggio, sulla musica della Liberata, sul gusto dell’arcano, e del lontano, furono anche premessa indispensabile alle analisi di un Momigliano e di un Fubini. Ma anche in questa lettura piú spiegata, il centro è sempre nel raccordo fra parola ed anima, ed anche la musica, avvertita nella sua profondità e complessità di temi, è soprattutto sentita come eco di stati sentimentali. «La musica è nel Tasso – chi voglia e sappia sentirla – ciò che la musica è, fondamentalmente, sempre: malinconia, raccoglimento, voce di cose grandi e morte»[11].

Da questa frase si può risalire nella ricerca unitaria del Donadoni alla sua vocazione di poeta, ai suoi motivi di «simpatia» con i suoi autori, alla sua concezione della critica come esperienza di sé, come vibrazione di motivi poetici sull’onda di nostri motivi sentimentali. E alla sua esasperata richiesta di umanità e di tensione spirituale e all’apertura tipica della sua sensibilità austera si deve la scarsa simpatia per gli scrittori piú moderni nel sensualismo di molti o nel culto del subconscio cosí in contrasto con il suo amore della piú posseduta coscienza, o nella loro eccessiva letterarietà. La sua scarsa vicinanza ai contemporanei (ricordiamo però che la prospettiva si veniva aggiustando appena verso il ’30 e non nell’immediato dopoguerra) deriva infatti non solo dalla sua esigenza spiritualistica, dalla sua conseguente preferenza per certe epoche (Medioevo e Romanticismo, come ben si vede dal disegno di storia della letteratura cosí efficace nella sua nervosa rapidità e nel rilievo della storia dei poeti), ma piú dalla sua mancanza di considerazione per la «letteratura», per la coscienza letteraria cosí essenziale nell’arte moderna, piú fiduciosa nel calcolo che nell’abbandono ispirato.

Il Donadoni sentí piú debolmente il valore dell’ars, della valutazione da parte del poeta del proprio istinto e dei propri mezzi, e della trama, della discussione squisitamente letteraria dentro cui si sviluppa la poesia. Si sa che il mito dei poeti ingenui non fa parte dei miti critici piú moderni e la storiografia letteraria crociana e postcrociana ha in ogni modo cercato la giustificazione letteraria, la attribuzione di coscienza letteraria persino nel caso delle espressioni una volta considerate popolari ed anonime. A questa tendenza comune allo storicismo stricto sensu come alla critica di derivazione rondista, o al formalismo postcarducciano, il Donadoni non poteva accedere, timoroso di ogni cristallizzazione della pura sostanza individuale e d’altra parte impegnato non in una polemica con le tendenze che poi trionfarono, quanto con le forme di estetismo, di schematismo erudito, di formalismo antiquato di fronte alle quali la sua opposizione era decisamente innovatrice.

Se questo minor senso della coscienza letteraria è la linea di piú chiaro distacco fra noi e questo alto maestro di critica, possiamo ora tanto piú avvertire la sua precisa importanza storica nel primo ventennio del secolo e il suo messaggio attuale. Storicamente Donadoni significa la decisa rivolta, direi la piú intensa e appassionata, contro ogni incerta ricostruzione esterna della poesia (metodo erudito, estetismo ed impressionismo) e l’affermazione in periodo crociano (parallelamente allo svolgimento crociano piú che in sua dipendenza) di una interpretazione centrale della persona poetica nella sua radice piú intima, dove scende l’alimento piú puro della esperienza vitale. Questo contemporaneo di Buonaiuti e di Omodeo (e di Omodeo fu maestro amatissimo), e d’altra parte di Boine e di Jahier, rappresenta nella nostra critica un momento ineliminabile di attenzione persino esasperata al centro individuale, alla vita spirituale di un’anima poetica e insieme l’esigenza di una condizione speciale nel critico: studioso, storico dotato di appropriati mezzi di ricerca, ma soprattuto e fortemente uomo, con una esperienza di vita personalmente sofferta, con una ricchezza intima e poetica che lo rende inizialmente omogeneo ai suoi autori. Proprio alla fine della sua vita, in una nota del ’24 alla sua prolusione pisana sul Leopardi[12], il Donadoni riconfermava la sua volontà di «avvicinare sé e chi leggerà al centro vitale di quel mondo poetico ed umano, cosí limitato e cosí profondo, cosí universale e cosí personale».

Per noi che non lo avemmo diretto maestro, ma che da una nuova lettura possiamo sentirlo tale nei suoi insegnamenti e nell’onda di caldo stimolo che proviene dalle sue parole sempre pure, coraggiose, personalmente scontate, esemplari per sincerità e per la loro nascita da un’anima che non conobbe in nessun campo il degradante conformismo e la viltà opportunistica, la posizione donadoniana implica un energico avvertimento: di non dimenticare mai, nella ricerca di uno storicismo sempre piú stringente e di una valutazione della poesia sempre piú fedele ai testi e al loro puro significato poetico, che, al di là di ogni moralismo e di ogni formalismo, la poesia va cercata nel suo centro animatore e che sul piano della coscienza letteraria piú aristocratica dobbiamo sentire l’impegno umano da cui nasce la condizione della poesia che non si esaurisce mai in un calcolo intellettuale per quanto raffinato e complesso.

E come la poesia con la sua eco di «cose grandi e morte» presuppone in lui l’impegno «storico» nella vita degli uomini, cosí la critica, nel suo alto insegnamento per noi, raggiunge la foscoliana santità dell’ufficio letterario quanto piú nella storia della poesia è la prosecuzione cosciente di un’adesione profonda ai compiti che la vita propone.

Di questa concezione della critica e di questa vita del critico, Eugenio Donadoni dette un esempio altissimo e l’omaggio che noi rendiamo oggi nel venticinquennio della sua morte alla sua memoria, alla sua viva presenza nel nostro ricordo e nel nostro lavoro, sale ugualmente dall’ammirazione della sua opera, dalla gratitudine profonda per la sua lezione di fedeltà alla poesia e di fedeltà alla vita in condizione di assoluta purezza, ed anche dal dolore che sia cosí difficile incontrare uomini e studiosi in cui intelligenza, sensibilità e coraggio abbiano una coerenza cosí schietta e commovente.


1 Di una riforma radicale nell’ordinamento delle scuole medie, Palermo 1907.

2 E. Donadoni, Ugo Foscolo pensatore, critico, poeta, Palermo 1910, 2a ed., 1927.

3 U. Foscolo, Prose e Poesie, a cura di L. Russo, Firenze 1941, p. 5, nota.

4 E. Donadoni, A. Fogazzaro, Napoli, 1913, 2a ed. Bari 1939.

5 E. Donadoni, A. Fogazzaro cit., 2a ed., pp. 144-145.

6 E. Donadoni, A. Fogazzaro cit., p. 204.

7 Eckermann, Colloqui col Goethe, Bari 1912.

8 Hebbel, I Nibelunghi, Milano 1916.

9 E. Donadoni, Torquato Tasso, Firenze 1921, 3a ed. Firenze 1946.

10 E. Donadoni, Torquato Tasso, 3a ed., p. 10.

11 E. Donadoni, Torquato Tasso cit., p. 200.

12 Il sentimento dell’infinito nella poesia del Leopardi, Pavia 1924.